Da oltre due secoli, siamo abituati a fruire le ricchezze del nostro patrimonio storico-artistico all’interno della cornice “decontestualizzante” del museo, in cui le opere esposte si spogliano dell’originaria cultura di contesto per assumerne una nuova, che riflette la missione stessa dell’istituzione: raccontare la storia dell’arte. La perpetuazione del fidecommesso Pamphilj del 1651, con cui si vincolava il patrimonio al primogenito maschio della famiglia, ha permesso di mantenere pressoché intatta, fino ai nostri giorni, la collezione d’arte conservata nel palazzo di Via del Corso, dove l’opera è eccezionalmente godibile nella sua valenza di oggetto d’arte e di dispositivo di un più ampio progetto allestitivo, che trova la sua sede di elaborazione teorica nei coevi trattati d’arte come quelli del medico senese Giulio Mancini e dell’architetto e scenografo Vincenzo Scamozzi.
È quanto si percepisce a colpo d’occhio nell’allestimento “a incrostazione” del salone di ingresso – il cosiddetto Salone del Poussino – dove, al di là di ogni intento didattico, il visitatore è immerso, anzi sommerso dalla magnificenza e ridondanza dello spazio concepito nel suo insieme inscindibile di quadreria, mobilia e parati, in un effetto d’insieme di forte impatto emotivo, cui non è estranea la retorica barocca berniniana. È in contesti come questi che il nostro sguardo, interessato solitamente e forse esclusivamente all’opera d’arte, si estende a cum-prendere l’insieme di tutti quegli aspetti che definiscono la cultura di palazzo come cultura del contesto, in stridente diversità rispetto alla funzione e alle finalità di un’istituzione museale.